Verso un progetto ontologico dell’architettura
Intersezioni tra tipo, tecnologia, linguaggio

Autore/Author: Ruggero Lenci


Ruggero Lenci

L’architettura è oggi sempre più votata allo sviluppo della conoscenza ontologica, piuttosto che indirizzata a isolate ricerche sulla forma o sulla tecnologia. Sotto questa luce il progetto può trasformarsi in un’eccezionale occasione di riflessione che spalanca le porte di una miniera di nuovi saperi interagenti tra loro. In questa laboriosa attività di lettura e scrittura architettonica la morfologia e l'innovazione tecnologica diventano materiali grezzi votati al medesimo obiettivo di crescita culturale e scientifica al servizio dello sviluppo di una migliore qualità della vita. In particolare nel nostro paese la “tradizione a preservare”, che impone una vigilanza continua da perpetuarsi nei confronti di quella stratificazione storica densa di significati nella quale è trascritta un'identità più che millenaria, dovrebbe naturalmente intersecarsi con la tradizione a innovare, più tipica di quei popoli meno dotati di una così forte eredità architettonica. Attraverso l'apparente ossimoro, “tradizione all'innovazione”, che consente di prendere atto del fatto che per alcuni popoli l'innovazione costituisce una tradizione, mentre per altri rappresenta il contrario, la lettura della storia dell'architettura può apparire più chiara. Questo processo andrebbe osservato come l’applicazione vincente di quelle mutazioni insite nel “DNA” dell'architettura che, non immune da oscillazioni e rigurgiti, in ultima analisi contiene in sé una naturale predisposizione all'evoluzione. Ciò in quanto l'attività di ricerca di validi modelli tecnici e linguistici sui quali impostare in modo sostenibile un'idea di spazio architettonico è giunta a completa maturazione, occupando un ruolo ormai centrale nella complessità del progetto contemporaneo.
 

Premessa

Il presente scritto si fonda su una serie di contributi legati allo studio dei linguaggi dell'architettura, che si sono svolti per lo più in Italia in un periodo ventennale che va dalla fine degli anni '50 a tutto il '70, di cui si vogliono ricordare le fasi più significative.
Nel 1958 Italo Gamberini intraprende uno studio pre-linguistico dell'architettura che divide in sette classi altrettanti gruppi di segni simili per denotazione. I suoi Elementi di (...)1, pur ricordando l'approccio albertiano al tema in questione, si caratterizzano nel fornire un metodo didattico per la scomposizione di un problema complesso in sottoproblemi semplici e nel distinguere l'architettura in elementi essenziali ed elementi di accentuazione qualificativa. La ricerca è più orientata verso considerazioni pertinenti ai caratteri distributivi degli edifici che al linguaggio dell'architettura, ma funge da stimolo per quella del suo assistente, Giovanni Klaus Koenig il quale, nel libro dal titolo: Analisi del linguaggio architettonico si occupa invece di aspetti prettamente linguistici. Intanto Cesare Brandi aveva già pubblicato i risultati dei suoi studi in un libro dal titolo Struttura e Architettura e John Summerson, nel 1963, il suo saggio dal titolo The Classical Language of Architecture. Nel 1968, Umberto Eco2, scrive La Struttura Assente, inquadrando il problema in modo esemplare, ma suscitando uno sconforto derivante da una presenza discontinua della vera protagonista, l'architettura. La risposta di Koenig non si fa attendere e appare il libro dal titolo: Architettura e comunicazione che, includendo un saggio su Schindler e Neutra3, tende a riportare il problema sul territorio che gli è proprio. Renato De Fusco, nel 1973, alimenta il dibattito con il libro dal titolo: Segni, storia e progetto dell'architettura nel quale, oltre a una puntuale trattazione sul valore dei segni, compie anche una serie di letture semiologiche di opere architettoniche non solo contemporanee. A questo punto, Bruno Zevi interviene in un dibattito che ha già suscitato grande interesse e, nel 1974, pubblica Il linguaggio moderno dell'architettura, libro nel quale riporta, e invita a far rientrare, il dibattito linguistico nell'ambito disciplinare dell'architettura moderna. In esso sono contenute le sette invarianti4, di derivazione neoplastica4, le quali dovrebbero fungere da "checklist" per una progettazione linguisticamente corretta. Gli architetti le iniziano a utilizzare durante la progettazione per misurare il corretto significato di quanto stanno facendo. Due anni dopo, arriva la seconda risposta di Koenig costituita da un libretto poco conosciuto dal titolo Analisi strutturale delle sette invarianti zeviane nel quale le sette invarianti diventano otto e si dividono in due gruppi di quattro che derivano da quelle del linguista danese Louis Hjelmslev5 e precisamente in: forme del contenuto e forme dell'espressione. Giuliano Maggiora scrive nel 1978 Architettura come linguaggio nel quale libro compie una ricerca che si estende ai campi della filosofia e della percezione. Nello stesso anno esce Il fondamento tipologico dell'architettura6 con cui Marcello Rebecchini, indaga a fondo sui rapporti intercorrenti tra tipo e linguaggio.
Negli ultimi decenni, l'interesse degli architetti per questo tipo di studi è fortemente diminuito, dapprima in maniera proporzionale all'aumento di quello registrato per gli aspetti di carattere tipologico, poi come conseguenza degli effetti della rivoluzione informatica, che sta producendo moti tuttora impegnati nella complessa ricerca di autonomi strumenti teorici.
 

Espressione e significato

Dibattendo sia con Bruno Zevi, sia con Marcello Rebecchini che con Giovanni Klaus Koenig alla fine degli anni '80 su alcuni dei temi indagati nei saggi richiamati in premessa, emergeva con sufficiente chiarezza il fatto che le forme dell'espressione, proprie delle varie avanguardie contemporanee, possono stringere, all'interno dei vari codici, autonomi rapporti di presupposizione con i sottesi significati dell'architettura. Ciò si tradurrebbe nel fatto che il panorama semantico della contemporaneità, risultando oggi enormemente ampliato in quanto da quasi un secolo costantemente sottoposto a multipli processi oscillatori derivanti da sempre nuove ibridazioni e codificazioni, starebbe mostrando evidenti segnali di cedimento. Tale realtà apre il futuro ad almeno due diverse prospettive. Da un lato si potrebbe ipotizzare che la membrana di cui è costituita la frontiera della contemporaneità sia fatta di una struttura elastica che si può ancora dilatare in larga misura così da poter resistere ancora per lungo tempo alle forti pressioni prodotte delle nuove avanguardie. Dall'altro sarebbe lecito pensare che i linguaggi della contemporaneità stiano vivendo una fase di declino, che si attua parallelamente a un processo di libera cessione di tutti i suoi portati, all'interno di una nuova logica del concepimento e dell'elaborazione architettonica che si caratterizza per una totale compatibilità della sua scrittura e per la sua simultanea trasmissibilità a livello globale. Se fosse vero quest'ultimo assunto ci troveremmo in presenza di modalità progettuali così ampie e potenziate rispetto al passato da lasciar seriamente riflettere se le novità apportate dall'elaboratore elettronico costituiscano o meno una circostanza solo strumentale che non incide se non marginalmente sul processo del concepimento dell'idea. La condizione che da poco più di un decennio a questa parte il progetto di architettura si trova a fronteggiare è che il computer sta ormai trasformando truppe di ex studenti neo laureati appena usciti dalle facoltà di architettura e di ingegneria-edile in battaglioni di progettisti pronti a "connettersi" con il resto del mondo, similmente a come la guerra aveva trasformato i contadini, prima in soldati e poi in operai.
In entrambi i casi vi è un problema di autenticità della scrittura architettonica in quanto la differenza che intercorre tra le avanguardie che producono i codici architettonici e gli epigoni di queste avanguardie è derivabile dalla coerenza tra il portato teorico del codice esaminato e l'apparato espressivo di quei progetti che a tale codice dichiarano di appartenere. Le avanguardie contemporanee si caratterizzano per l'alto grado di coerenza che lega indissolubilmente forme a contenuti. I loro epigoni, invece, separando il linguaggio segnico dei codici dal significato interno dell'architettura e applicando prevalentemente il primo dei due termini, indeboliscono i meccanismi di coerenza interni al progetto. Ciò produce un equivoco, il più clamoroso dei quali è senz'altro quello sorto con gli epigoni di De Stijl: forme protese verso la collettività sul piano dell'espressione, ma totalmente legate al modello capitalistico su quello del contenuto. Ogni qualvolta, infatti, si crea un legame non disarticolabile tra forma dell'espressione e contenuto nasce un nuovo paradigma architettonico, ma subito dopo può aver luogo un epigono, oppure un suo superamento.
 

Tipo e linguaggio

Le intersezioni tra tipo e linguaggio rappresentano ancora il cuore del problema architettonico, un binomio sul quale l'indagine compiuta è stata importante ma non può dirsi esaurita e che dovrebbe invece essere costantemente aggiornata. Il binomio tipo-linguaggio costituisce la sintesi di almeno cinque discipline architettoniche: compositive, urbanistiche, tecnologiche, costruttive, di rapporto con le preesistenze. Pertanto ogni approfondita elaborazione progettuale tendente a metterne a punto l'intimo rapporto produce una risposta multidisciplinare nella quale convergono le su citate componenti. La tipologia si confronta infatti sia con gli aspetti della propria costruibilità tecnologica sia con quelli della morfologia urbana e delle preesistenze a volte anche storiche, quando queste ultime non risultino essere addirittura incorporate. Ne deriva che un coerente processo di sintesi progettuale che completa il tipo trasformandolo in modello potrebbe essere completato solo dopo aver intersecato e reso interagenti queste diverse facce le quali, in ultima analisi, assumono il valore di altrettante predisposizioni linguistiche.
Un contributo molto utile alla comprensione dei rapporti tra tipo e linguaggio, scritto in tempi nei quali il computer non si era ancora imposto all'attenzione dei progettisti, è stato apportato da Marcello Rebecchini nel già citato libro, Il fondamento tipologico dell’architettura, nel quale tali rapporti vengono trattati intensamente.
E' pienamente condivisibile il fatto che il tipo possa essere correttamente interpretato come (...) la struttura significativa propria di ogni singola opera, (...) di cui costituisce (...) la matrice significativa comunicabile (...)7. Pertanto esso è, qualcosa di schematico che evolve in forma compiuta, assumendo l'identità di un elemento linguistico, e le sue trasformazioni narrano non solo i cambiamenti funzionali delle esigenze pratiche dell'uomo ma anche le modalità di trascrizione che queste hanno prodotto nel tempo. Quando uno schema si rende manifesto esso perde il valore di tipo per assumere una precisa caratterizzazione e così divenire modello.
Sembrerebbe che il margine per l'invenzione personale sia tanto più ampio quanto minore risulti il grado di evoluzione di un linguaggio. Ciò è vero solo se ciò che si vuole inventare è il linguaggio stesso, e non un testo, poiché per comporre una buona scrittura è fondamentale poter disporre di un linguaggio evoluto. Ora, in architettura, sono presenti ambedue gli aspetti: sia l’ambizione di produrre un testo significativo facendo uso delle parole esistenti, sia quella di tentare la produzione di nuove parole. Sarebbe infatti grave il destino della nostra disciplina se fosse vero l'assunto che (...) in nessun modo può l'architettura incidere su un contesto sociale, perché nulla può comunicare che non sia già formalizzato e codificato in un linguaggio.8 Se nel primo caso si può produrre dell'ottima architettura, nel secondo si può ambire ad appartenere all'avanguardia. Chi opera nel primo dei due insiemi è in genere un maestro nel delineare (…) la struttura tipologica di una singola opera che probabilmente non ritroviamo in nessuna altra, che tuttavia risulta ancora riproponibile come tale senza dar luogo alla ripetizione del modello, cioè alla nascita di un doppione.9 Chi opera nel secondo, ricerca invece anche una nuova espressione per un contenuto nuovo. Tale espressione per emergere alla coscienza non può fare a meno di formalizzarsi, di strutturarsi in una forma, così ponendosi nel campo della pura espressività non trasferibile in un ...ismo, tanto illeggibile quanto incomunicabile se non per coloro i quali hanno appreso la sintassi del nuovo codice, cosa che richiede sempre apertura, impegno e tenacia.
Ogni qualvolta l'architettura crea nuove modalità per soddisfare bisogni e desideri ci troviamo in presenza di un possibile movimento d'avanguardia che incide significativamente sulle trasformazioni sociali e culturali dell'uomo. A seguito di queste acquisizioni, anche linguistiche, che arricchiscono il dizionario dei codici contemporanei di nuove presenze, ha luogo (...) un periodo di maturazione e sistematizzazione dei risultati acquisiti, (...)10 che si rende necessario per mettere ordine nel repertorio ad esse allargato.
Se è vero, come scrive Marcello Rebecchini che Il tipo dedotto a posteriori dall'esame di più opere simili, funge poi da strumento classificatore di un'opera in una particolare categoria (...) ma nello stesso tempo si pone come premessa necessaria di ogni ideazione architettonica (...)11, diventa utile capire se questa regola sia da ritenersi valida anche per i fautori delle ultimissime tendenze e, in caso di risposta affermativa, iniziare a individuare una serie di elementi planimetrici12 in essi ricorrenti, tali da far pensare alla nascita di un tipo. Non in senso esclusivamente e astrattamente funzionalista, ovvero come rifiuto di (...) qualsiasi condizionamento formale nell'ambito della configurazione tipologica, (...)13 ma come ricerca delle trasformazioni, tensioni e deformazioni alle quali un tipo è tendenzialmente sottoposto da una nuova avanguardia, che oggi può dirsi tale anche grazie ai nuovi strumenti che si sono resi disponibili per l’elaborazione del progetto.
Questo processo di evoluzione del tipo non può derivare (...) da un fortuito processo di schematizzazione e di riduzione al minimo comune multiplo di più opere di architettura che presentino aspetti similari, ma da un preciso riconoscimento di un nucleo di elementi in stretta relazione tra loro che si ripetono come invarianti in più opere, con le caratteristiche specifiche di una struttura. Non si può, infatti, (...) tralasciare di cogliere in esso una dimensione evolutiva e processuale che ponga in luce i precedenti storici del suo processo formativo (...) caratteristica specifica del suo più intimo significato.14 In questo senso i processi diacronici interessano l'architettura più di quelli sincronici, ovvero la lettura di un processo temporalmente trasformativo interessa più che quella di un sistema strutturato e permanente. Ed è appunto il suo inscindibile legame a (...) una realtà storica passata (...) e il suo proiettarsi (...) in una futura15 il fenomeno da approfondire, nella sua (...) essenza strutturale (...) senza restare nel vago di una semplice constatazione dell'invariante.16
Da un lato, quindi, i giudizi critici su ciò che è stato hanno sempre prodotto o un'assunzione, o una proposta di modifica o un rifiuto del tipo, dall'altro, quando siamo in presenza di passaggi storici così epocali come quelli che stiamo vivendo in questi anni, intervengono nello scenario nuovi fattori, segnatamente un supermanierismo trasformativo, che trovano facile terreno per contraddire quanti sono rimasti troppo fortemente ancorati a concettualità di derivazione tipologica. Solo chi ha mantenuto viva l'agilità per lavorare, anche faticosamente, nelle intersezioni, ovvero tra le maglie di queste due polarità costituite da tipo e linguaggio, si è reso partecipe della forte accelerazione del processo evolutivo che la composizione architettonica, insieme alle altre discipline di cui è parte inscindibile, sta oggi sperimentando. I ritmi della modernità richiedono in larga misura tali doti di agilità che se da un lato si traducono in uno studio attento di tutto l'esistente con una ricognizione storica che va dall’antichità alla contemporaneità, dall'altro impongono a un costante aggiornamento dei metodi e dei metalinguaggi presenti nei processi ideativi dell’architettura nell'era della globalizzazione.
E' la condizione dinamica di questo rapporto in perpetua trasformazione nel tempo, insieme alle relazioni organiche intercorrenti tra sedimentati ed emergenze e alle oscillanti mutazioni indotte nella società a produrre lo slittamento del punto teorico di intersezione tra il tipo e le sue possibili configurazioni linguistiche. Tale slittamento dovrebbe seguire un tracciato teso a fornire una risposta elevata, quindi sostenibile, al soddisfacimento delle esigenze e dei desideri dell'uomo.
 

Architettura ontologica e intersezioni

In molti progetti contemporanei nei quali la scelta è di evitare operazioni di revival anche del moderno, non è possibile riconoscere un unico codice di riferimento linguistico, preferendo la messa in atto di modalità di ricerca compositiva intercodice. Intessendo un dialogo tra due codici contemporanei è possibile catturare molteplici potenzialità rimaste ancora inespresse e, tra queste, talvolta alcune possono risultare di grande interesse per lo sviluppo della conoscenza. Appare ormai chiaro come la nuova architettura utilizzi il volume come un’occasione per ampliare e intersecare le frontiere del sapere. In esso è possibile far coagulare tutti i campi di interesse dell’uomo, nessuno escluso: arte, tecnologia, mondo analogico e digitale, tradizione, innovazione, materiali, ecc. Va inoltre tenuto conto che il costante superamento delle posizioni precedenti, oggi fortemente facilitato dalla presenza del computer e dei sofisticati programmi di manipolazione dello spazio virtuale, è sempre più dovuto all'ansia di innovare a tutti i costi, condizione che la società contemporanea suscita in modo esasperato in tutti i settori. Le parole innovazione e originalità, sono riportate in quasi tutti i bandi di concorso, nei requisiti per la compilazione delle tesi di dottorato e nei criteri di ogni ricerca, e pertanto se un prodotto non mostra di essere tale non viene accettato anche se non è pensabile che innovazione e originalità siano merci producibili in quantità industriali. Nell'elaborazione di un'architettura tale attitudine spinge molti progettisti a gareggiare in una corsa che, di volta in volta, diventa sempre più spericolata, specie sul piano delle immagini rese possibili da computers e nuovi algoritmi sempre più veloci le cui potenzialità non smettono mai di stupire. Ma viene da chiedersi: sul piano dei contenuti non è ormai forte il rischio che dietro la persuasione dell'occhio si celino non ontologia ma ampie e, talvolta, drammatiche inconsistenze concettuali, se non addirittura assenza totale di un’idea di progetto? Sorge questo dubbio perché sempre più frequentemente assistiamo a premiazioni di concorsi nei quali i progetti vengono tanto più premiati quanto più pervasi da incomprensibilità architettonica, resa deliberatamente tale da un’esasperata caoticità grafica. In questi casi, in nome di un prodigioso cambiamento che questo scuotimento potrebbe apportare a una produzione edilizia opacizzata da numerosi guasti, molti progettisti finiscono per promuovere lo scioglimento del rapporto dinamico tra tipo e linguaggio.
Una tendenza sempre in atto in architettura è costituita dalla sfida a progettare ciò che apparentemente sembrerebbe di impossibile realizzazione. Tale sfida, che riguarda principalmente i limiti strutturali ma che si occupa anche dell'indagine degli aspetti tipologici e linguistici del progetto, tende a dare per scontata la vittoria dell'architettura sul dominio della firmitas, al punto che questo aspetto in molti casi finisce per assumere un ruolo secondario. Se si pensa alle opere di Frank O. Gehry, a quelle di Peter Eisenman, di Daniel Libeskind o dei Foreign Office, si può osservare che sono molteplici i casi nei quali, durante il concepimento dell'idea architettonica, le esigenze strutturali sottese alla modellazione della forma sono quasi del tutto assenti. Molti dei progetti di questi autori sono tesi a scuotere, con fenomeni di ribellione morfologica, un mondo ritenuto troppo assopito su posizioni architecturally correct. Queste posizioni, appartenenti a un recente passato, da questi autori non vengono più ritenute adeguate a stringere un dialogo significativo con le attuali tendenze della società nell’era della post-contemporaneità ontologica. Tutto ciò produce la ricerca di una sempre più esasperata e virtualizzata complessità spaziale resa possibile, in maniera diffusa, dagli strumenti dell’informazione. Fino a un recente passato sarebbe stato necessario possedere capacità piranesiane per costruire nella propria mente una spazialità complessa, quindi per poterne restituire la rappresentazione sul piano bidimensionale. Oggi invece, grazie al computer, tutti gli studenti delle facoltà di architettura e di ingegneria-edile sono in grado di sfornare a ripetizione immagini non immaginate, ovvero situazioni spaziali che, in realtà, non vengono inventate dalla mente umana in forma tridimensionale, ma che derivano dal sapiente inserimento di linee, superfici e volumi all’interno dello spazio di un programma CAD. Ciò senza nulla togliere ai giovani progettisti che, per mezzo del computer e di specifici softwares, sono in grado di produrre una vision dell'architettura con immagini talvolta di eccezionale qualità. Purtuttavia si rende necessario integrare queste capacità con quella di immaginare l’architettura, qualità che purtroppo si sta perdendo. Anche questo ossimoro infatti, immagini non immaginate, fa parte di quel processo di globalizzazione in atto di cui un aspetto primario consiste nel poter beneficiare in maniera sempre più diffusa delle tecniche informatiche digitali che hanno iniziato a occupare il posto di molti saperi da secoli residenti nel cervello umano.
Visto da un altro punto di vista, questo radicale mutamento impone la frequente revisione dei giudizi formulati su una produzione architettonica e grafica amanuense che solo trent'anni fa veniva giudicata di grande qualità e che oggi viene superata dal computer. Ciò richiede di misurarsi con quelle tematiche legate all'accesso immediato all'informazione e di osservare con attenzione gli sviluppi della metodologia del collaborative design che prevede l'elaborazione simultanea del progetto da parte dei suoi principali attori. Il rischio corso da quanti non si attrezzano per combattere il rapido invecchiamento dei processi elaborativi del progetto è quello di rendere precocemente anacronistico un metodo di lavoro. Pertanto è necessario aprirsi al cambiamento per affrontare le rinnovate sfide imposte dalla crescente complessità.
Chi non desidera cambiare invece spesse volte prende questa posizione in quanto convinto che in questa folle corsa informatica si sia ormai irrimediabilmente superata ogni soglia del rapporto significato-significante, e che le realizzazioni che seguono questi modelli formalisti di un’architettura pseudo-sensibile rappresentino altrettante sperimentazioni che irrimediabilmente si collocano fuori dal campo degli interesse strettamente disciplinari, da sempre costituiti dalla ricerca delle mutazioni delle relazioni intercorrenti tra tipo e linguaggio.
Un dato certo è che oggi sono pochi quei laureati nelle discipline architettoniche che hanno appreso, come è storicamente sempre stato richiesto, l'arte del disegno. Nelle relative facoltà non si vedono più prospettive eseguite a mano, restituzioni assonometriche, o disegni dal vero, ma solo pochi e frettolosi schizzi. Il pericolo è che si stia rapidamente perdendo la capacità manuale di produrre la visione di un'idea, e che gli studenti si sentano sempre più intimoriti, se non addirittura frustrati, dalle pressoché imbattibili potenzialità del computer, al cui apprendimento peraltro si dedicano con enorme passione. Una capacità, quella del disegno, che non è solo artistica ma principalmente di pensiero, di intima e pacata riflessione sulla formatività degli spazi per la vita dell'uomo. Quindi, se da un lato la modellazione tridimensionale ottenibile dal computer è potenzialmente in grado di trasformare uno studente o un neo laureato in un ideatore di edifici complessi, dall'altro è forte il rischio che dietro le abbaglianti immagini elettroniche si annidi una ridotta intimità progettuale che spesso va a detrimento delle qualità degli spazi dell’architettura.
Cosa si intende con intimità progettuale? E' una qualità presente quando il progettista è alle prese con quell'atto tentativo di risoluzione di una serie di intersezioni problematiche che si condensano in un disegno, vissuto perché pensato, generoso anche se non del tutto risolto o finito, umano perché possibile. Ciò a differenza di chi, utilizzando il computer, nello stesso arco di tempo è in grado di generare un'immagine estremamente persuasiva, cromaticamente appagante per gli occhi, ma sostanzialmente priva di un'autentica visione architettonica generata come un fluido atto ideativo, la cui sintesi non risiede nella mente del suo ideatore ma consiste in un macchinoso atto di verifica. Tali immagini, complici le attuali tendenze linguistiche, sono sempre più costruite per compiacere l'occhio. In esse è spesso assente quella qualità che lega forme a contenuti, perché le stesse risultano essere per lo più basate su un metodo del comporre per rapidi e schizofrenici flash di immagini.
Realtà simili sono presenti sia nei banchi delle facoltà di architettura/ingegneria edile, sia ai massimi livelli della scena internazionale. Daniel Libeskind, ad esempio, durante l'esecuzione del progetto per il Museo di Cultura Ebraica a Berlino non ha fatto mistero del fatto di non sapere come le parti dell'edificio che stava ideando sarebbero state assemblate, o come le stesse sarebbero state sostenute, facendo intendere che il suo specifico interesse risiede in un'area collocata oltre i problemi costruttivi dell'architettura, aspetti che lascia volentieri risolvere ai suoi consulenti. La sua è, allora, un'attività di progettazione tutta incentrata su quegli aspetti della sintesi figurativa che si occupano dell'invenzione di tipi e linguaggi (o della deformazione di quelli esistenti). Viene quindi il sospetto che proprio in virtù di una tale spensieratezza costruttiva, ovvero affidandosi totalmente al sapere di altri, l’ideazione di forme azzardate prolifichi a dismisura, producendo idee progettuali sempre più capricciose lì dove risultano gratuitamente estreme sul piano del calcolo strutturale e irriverenti rispetto ai problemi della distribuzione e dell’assemblaggio delle parti. Sarà poi compito di altri voraci professionisti, appassionati e capaci a interagire con il lavoro di una mente così disinvolta, fornire le competenze specifiche e indispensabili a tradurre quelle intenzioni, spesso ancora solo grafiche, in soluzioni architettoniche strutturalmente e tecnologicamente attuabili. Molti tra i professionisti coinvolti nell'operazione svolgeranno il ruolo di ottimizzatori, ovvero di specialisti nel tradurre qualità spaziali e formali in elementi finiti. La natura di queste trasformazioni deriva da scelte tecniche operate in modo che le prime non ne abbiano a soffrire, e i secondi siano realizzabili all'interno di precisi parametri. Ma in ultima analisi deriva anche dalla libertà interpretativa del traduttore, che in alcuni casi è libero di intervenire con ampie licenze poetiche. Per rendere possibile una tale metodologia sperimentale di intersezioni tra competenze diverse e complementari è indispensabile che tutti i membri del team siano predisposti a elaborare un progetto in senso ontologico, pertanto pronti ad applicare le regole generali ai casi più particolari. Inoltre è richiesta una grande dose di coraggio poiché, nella sperimentazione ci si espone molto di più all'errore, quindi alla critica, che non nella routine. E' in questo gap che si intessono le intersezioni tra le varie discipline, definendo un ambito nel quale ogni elemento del progetto deve trovare una propria esatta dimensione e collocazione rispetto agli altri. Va da se che in un progetto firmato da Libeskind tutte le scelte saranno dettate da considerazioni legate all'ottenimento dell'effetto linguistico desiderato, a volte con sacrificio per gli aspetti strutturali o impiantistici. All'opposto, in un progetto firmato Foster, tutto avverrà in modo da esaltare gli aspetti strutturali dell'architettura.
 

Conclusioni

In conclusione, mantenendo viva l'agilità per misurarsi non solo con le tematiche architettoniche legate ai concetti di tipo e linguaggio, ma anche con quelle relative alla risoluzione di tutti gli altri aspetti disciplinari ad essi collegati, sarà possibile far fronte alle forti accelerazioni immesse in dosi sempre più massicce nella società. I ritmi della modernità richiedono in larga misura capacità che si traducono da un lato in uno studio meticoloso e attento dell'esistente, dall'altro in un costante aggiornamento dei metodi e dei metalinguaggi presenti nell'era dell’architettura ontologica.18 Se i programmi CAD hanno normalizzato il modo di pensare ed elaborare il progetto di architettura come mai era avvenuto nella contemporaneità, dall'altro la composizione architettonica rappresenta ancora un baluardo al quale, in un sempre più aperto dialogo con le altre discipline ad essa indissolubilmente collegate, è affidato il compito di monitorare la qualità e la coerenza della sintesi compositiva. Si è capito che ciò che più interessa oggi è il progetto che progetta, ovvero un’ipotesi di organizzazione spaziale che contiene in sé le regole d’uso dell’architettura e dell’urbanistica e, in quanto tale, è in grado di progettare positivamente la vita dei propri abitanti. Questo è il significato più intimo di architettura ontologica: un’architettura nella quale l’attività ideativa è elevata a potenza, così da riuscire a indagare le qualità fondamentali dell’essere non solo nello spazio ma anche nel tempo.
Da almeno tre decenni si è fatta strada la consapevolezza che il progetto deve misurarsi con il concetto di sostenibilità, parola derivante dalla famosa ricerca del M.I.T. diffusa dal Club di Roma nel 1972 con il titolo I Limiti dello Sviluppo17, e che in seguito ha assunto sempre più importanza con le conferenze di Stoccolma, United Nations Conference on the Human Environment, 1972, di Rio de Janeiro, United Nations Conference on Environment and Development, Rio Earth Summit, 1992, e di Johannesburg, World Summit for Sustainable Development, 2002. Pertanto se le intersezioni tra le diverse discipline saranno in grado di attivare uno sviluppo che soddisfa le esigenze presenti senza compromettere l'abilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni (definizione di sviluppo sostenibile, Brundtland Report, 1983), ciò significherà che sia sul piano tipologico-linguistico, sia su quello tecnologico-strutturale che, ancora, su quello storico-ambientale, le future ipotesi architettoniche mostreranno sempre più chiaramente l’evidenza di una consapevolezza multidisciplinare e sostenibile nei processi conformativi degli spazi per l’uomo.

Towards an Ontological Architectural Design
Intersections between type, technology, language

Today, the tendency of architecture is toward the development of a broad sense of ontological knowledge rather than the isolated research on form and technology. The design activity is an exceptional occasion to open the doors of a mine of new interacting knowledges. In this enduring research activity, form and technological innovation become interacting factors, rough materials devoted to the same objective of cultural and scientific growth. In particular, the “tradition to preserve” in our country, which requires a continuous alert effort towards the understanding of the most significant parts of history, should naturally allied with the tradition to innovate, more typical of those populations with a less strong architectural inheritance. Through the apparent oxymoron “tradition in the innovation”, knowing that for some populations innovation is a tradition while for others the same has to constantly fight against strong resistances, it becomes possible to clearly read the whole history of architecture. This process should be observed as the winning application of mutations belonging to the DNA of architecture that, at the end, contains a natural predisposition towards evolution. It is such because the research activity of valid technical and linguistic reference models that could support in a sustainable way the idea of an architectural space is nowadays completely mature, occupying a central role in the complex contemporary design.